Finalmente, eccoci. Anche io non potevo esimermi dal dare l’ennesimo contributo, sotto forma di parola scritta, alle critiche, visioni, idee, prospettive, frustrazioni legate alla recente (e a dir poco particolare) esperienza della quarantena e all’attuale momento di “ripresa” (che è quasi un eufemismo visto che qua, mi risulta, si stiano riprendendo in pochi).
Scrivo adesso che stiamo tentando di tornare alla “normalità” perché, effettivamente, è proprio ora che mi preme parlare. Nel periodo della quarantena c’era ben poco da dire. Se consideriamo il “dire” strettamente legato ad un “fare”, chiaramente, in quella situazione c’era poco spazio per qualsiasi considerazione, a mio parere.
Per scrivere questo articolo ho deciso di prendere in mano carta e penna, ed è una scelta di tipo artistico-concettuale. Chi fa arte, e non solo, sa bene che tutto l’invisibile che c’è dietro alla realizzazione di un’opera ha un valore sostanziale nel dare significato e spessore all’opera stessa.
Carta e penna.
No computer, no tablet, no telefono.
E con questo ho già detto tutto.
Che faccio? Continuo…?
Dopo la carta e la penna che sto utilizzando per scrivere, l’altro aspetto chiave di quello che sto per esporre è il concetto di resistenza. No resilienza, RESISTENZA. Dal verbo “resistere”.
Andiamo a vedere sul vocabolario che cosa troviamo sotto questa voce:
Di tutte le definizioni, quella che più mi interessa è questa: “La capacità o la proprietà di resistere a particolari azioni o forze, fattori o effetti, contrarî, dannosi o comunque negativi.”
Partiamo dal presupposto che io sono una specie di medaglia d’oro della resistenza, una professionista del “tenere il punto”, campionessa mondiale del “mantenersi saldi”, talento straordinario del “prendere posizione”. Lo sanno molto bene tutte le persone che hanno avuto a che fare con me per un periodo di tempo minimamente prolungato. L’hanno dovuto capire da subito i miei genitori quando, già piccolissima, prendevo da sola le mie decisioni e le portavo avanti. L’hanno capito all’incirca tutti i professori, educatori, maestri, insegnanti con cui ho avuto a che fare in età giovane e meno giovane. Lo sanno molto bene amici, partners (che ve lo dico a fare) e colleghi di lavoro.
Ma ci sono poche cose sostanziali da difendere veramente, con le unghie e coi denti, e in merito alle quali tutta la mia determinazione prende la forma di una solida, stabile, inamovibile, rigida testardaggine.
Ed eccone una:
La quarantena, la pandemia, il terrorismo psicologico, la limitazione della libertà che abbiamo dovuto subire e tollerare non poteva che mettere in discussione moltissimi aspetti della nostra vita, il che, per certi versi potrebbe anche essere un bene, tranne che per quelle cose che, invece, è bene restino quello che sono sempre state. E qui entra in gioco la mia battaglia quotidiana contro tutti i “però c’è del positivo anche in questo” e i “possiamo trovare delle modalità”, i “cerchiamo un nuovo modo di…”
COSA?
Un nuovo modo di… fare teatro? Musica? Concerti?
… COSA??
Belli gli spettacoli senza pubblico… complimenti. Grande invenzione.
Ah, ma mi piace un sacco questo suonare insieme ognuno per conto suo nella propria stanza con un microfono davanti. Applausi.
Questo è l’adeguarsi che non mi piace, questo è lo scendere a compromessi che puzza di ripiego, il colmare una mancanza che sa di surrogato. Ve lo dico brutalmente, con un linguaggio quasi sciatto, perché arrivi nella maniera più cristallina possibile: i surrogati FANNO SCHIFO.
Il surrogato è inquinante, è dannoso.
A volte non c’è alternativa, ma quando l’alternativa c’è, allora, che sia quella. A volte l’alternativa è niente e, spesso, il niente è meglio del surrogato perché porta a nuove strade, nuove scoperte, nuove identità. Ma il surrogato, lo ripeto, fa schifo. Sa di nulla, sa di sciatto, sa di plastica e di vuoto, riempie per svuotare come il cibo dei fast food. Perché volete tutti questo stramaledetto e insipido junk food?? Non è meglio digiunare? Vi prego, digiuniamo almeno un po’, mangiamone il meno possibile di questa schifezza (sì, è la parola che esprime tutta la sciatteria del caso). Basta panini insipidi. Adesso, che siamo tornati alla normalità, o ci stiamo muovendo verso di essa, perché c’è ancora gente che mi parla di lezioni online e streaming…? Non capisco… che problema avete? Non vi piace vivere? Non volete essere felici e provare emozioni autentiche? Che problema c’è? Siete timidi? Vi sentite al sicuro e protetti nel vostro bozzolo, dietro una fredda videocamera che inquadra solo quello che decidete di mostrare? Vi fa paura il contatto umano? E pretendete che anche gli altri debbano farne a meno…?
Purtroppo, lo ammetto, c’è molta rabbia in quello che dico e nel modo in cui lo dico, ma mi pare il minimo considerato che tutti siamo stati privati di cose essenziali per il benessere della persona come la socialità e la vicinanza che purtroppo, dobbiamo ammetterlo, deve necessariamente essere anche fisica! Siamo corpi anche noi.
Perché ci sono persone che, probabilmente in linea con la loro nevrosi, mi sembra abbiano trovato rifugio nell’assenza di contatto e pretendono di portarla avanti imponendola anche al prossimo come la maniera giusta di fare le cose?
Non è la maniera giusta. È quella sbagliata. È una realtà distorta a cui vi state adeguando per debolezza.
Comunque vadano le cose, si tratterà di mesi (forse un anno?) la pandemia finirà. Si tratta di un momento passeggero. Una farfalla che vola e va. Ampliate le vostre prospettive e resistete perché non c’è altro da fare. Soffrite il più possibile in silenzio e approfittatene per fare pace con voi stessi nel frattempo, che dopodomani, stiamo di nuovo lì a stringerci la mano per un saluto o un accordo. Chiudete gli occhi e aspettate che passi la tempesta senza compromettere gli aspetti essenziali dell’esistenza umana. Sembrano lunghi questi mesi, ma la realtà è che non lo sono. Sono quello che sono. Un buchetto esistenziale a cui dover far fronte con la massima dignità. Un piccolo vuoto da superare.
Se non ce la fate a resistere, almeno, abbiate rispetto per chi invece ce la fa evitando di trascinare anche gli altri nel vostro baratro. Imparate a soffrire, che è una lezione di vita importante, senza mancare di rispetto a voi stessi e al prossimo. Se tornare alla normalità vi fa paura, rimane un problema vostro. Fatevene carico voi.
Io torno, a piccoli passi, in pista. Aspetto, laddove ancora non posso tornare.
Torno e aspetto.
Non mi adeguo.
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